Intervista a Nicoletta Bortolotti


La settimana scorsa noi della 2E abbiamo intervistato la scrittrice Nicoletta Bortolotti, di cui abbiamo letto e amato il romanzo "La bugia che salvò il mondo". 
Grazie Nicoletta, per essere stata con noi! E grazie ad Andrea che ha trascritto questa intervista.


Intervista a Nicoletta Bortolotti
La bugia che salvò il mondo

Siete un po’ come i miei primi lettori per questo libro, gli altri incontri sono fissati per l’autunno e quindi il vostro parere è importantissimo. Stamattina ho scritto un post su Facebook: “Oggi interrogazione: i ragazzi della scuola Colombo mi faranno un’intervista”. Spero di essere preparata e spero di non raccontare troppe bugie... se non a fin di bene!
La scrittura di questo libro non è stata sempre facile. Per scriverlo ho chiesto informazioni al figlio del medico Giovanni Borromeo che è avvocato e abita a Roma. Gli ho chiesto di darmi un po’ di materiale, e lui mi ha mandato tantissime foto di famiglia e una biografia di suo padre scritta da lui.
Ho usato testimonianze di libri, video, articoli, come si fa con i romanzi storici. E poi è stato tutto letto riga per riga da un esperto storico della casa editrice che si occupa di libri di questo genere che parlano della Shoah e dell’Olocausto.

Mentre scrivevi che sentimento provavi?
La prima parte del libro l’ho scritta al mare la scorsa estate. In vacanza andiamo sempre in Sardegna, e alloggiamo in una casa che ha la vista sul mare. Ero con i miei figli di 13 e 16 anni e c’era anche mio nipote che ne ha 17. Cosa facevo? Io mi alzavo alle 7.30 del mattino, mi mettevo con il computer davanti alla finestra sul mare, e prima che questi adolescenti si alzassero e cominciassero a mangiare l’ira di Dio a colazione, io scrivevo. Avevo il mare davanti, non c’era ancora nessuno in spiaggia. Mi ricordo la tenda che volava e una gran pace. Poi intanto leggevo anche il materiale che mi aveva dato il figlio del medico. Ho continuato a scrivere quando sono tornata a casa: io scrivo preferibilmente nella mia cucina, con il computer portatile, perché è luminosa. Quindi associata a questo romanzo io ho una sensazione di luce. E immaginavo questi ragazzi in un quartiere romano molto bello, che si prestava a una rappresentazione quasi fantastica. Ho sensazioni positive per lo più, anche se c’è stata pure un po’ di fatica Magari a volte non riuscivo a rendere certe scene, quindi le lasciavo lì per un po’, poi le riprendevo, come capita a voi, immagino, quando fate i compiti di italiano, che magari non vi viene una frase e vi fermate un attimo. Ecco, non è semplice insomma...

Dopo un po’ che scrivevi della stessa storia, non ti veniva voglia di cambiare?
Più che voler cambiare storia, mi sono detta: “Ma perché io scrivo sempre di questo periodo? Forse dovrei cambiare un po’”. Però c’è qualcosa dentro di me che mi spinge a scrivere del nazismo o della Shoah. Il fatto è che mi interessa, mi coinvolge nel profondo, forse anche perché mia nonna era di origine ebrea. Quando studio, mi accorgo che mancano sempre dei tasselli. Poi vengo a scoprire delle cose, magari dagli insegnanti, o dai lettori, o mi capita di scoprire altre informazioni, e allora il quadro di quel periodo si fa sempre più completo.

Com’è stato quando hai iniziato il libro? E quando l’hai finito?
All’inizio e alla fine stavo leggendo un libro di un autore americano che è bravissimo a fare dialoghi, Kent Haruf... E ho visto la scena di due ragazzini che camminavano sulle rive del Tevere, giocavano e si scambiavano delle battute. E ho provato subito a scrivere questa scena. All’inizio viene un po’ di paura, proprio a cominciare, perché è come se dovessi mettere in moto una macchina che è incriccata, che non parte e ti sembra di scrivere delle cavolate. Però bisogna fare un po’ questo sforzo e cominciare a mettere giù la prima frase e poi quello che viene viene.
La scena finale l’avevo immaginata da subito: la parola con cui finisce il libro - “mentì” -  mi è venuta in mente perché volevo proprio fare il gioco di prendere la scommessa iniziale, riportarla alla fine, in un dialogo che si svolgeva proprio su quell’argine: insomma creare una corrispondenza tra la scena iniziale e la scena finale. Un consiglio che dava Umberto Eco: nei libri bisogna seminare gli indizi e riprendere gli elementi della storia almeno per tre volte. Io magari non li riprendo sempre per tre volte, però cerco di farlo. Per esempio, la scena della scommessa la devi riprendere nel finale, la devi riprendere in un altro capitolo. Anche per il personaggio di Celeste ho fatto così: già nella parte centrale ho cominciato a dire che aveva la febbre, senza tanto spiegare; poi questo elemento della febbre l’ho ripreso quando è stata ricoverata. Lo stesso per Cloe. Quando ero ragazza a me piaceva fare i braccialetti con i fili di cuoio. Fare una storia è una cosa simile. Prendete un filo, e lì mettete un dettaglio, e poi intrecciate, cercate di fare in modo che nessun elemento rimanga senza spiegazione.

Da dove è arrivata la tua ispirazione?
Allora, come mi è venuta l’idea? Tanto tempo fa, ma veramente parliamo di anni, avevo visto un documentario su Voyager che raccontava la storia di questo medico, Giovanni Borromeo. Mi aveva colpito tantissimo e subito mi era venuto in mente: “Sarebbe bellissimo fare un libro per ragazzi!” quindi me l’ero segnata sulla mia Moleskine. Ma poi era rimasta chiusa per anni. Poi anni dopo ho proposto questa idea alla casa editrice.

I personaggi sono reali o fittizi?
Il personaggio di Amos è fittizio; Giovanni Borromeo è vero e tutto quello trovate nel libro riguardo a lui è storicamente accaduto. Il personaggio di Cloe è fittizio, ma il nome è quello di mia nonna. Cloe, è un nome greco che significa “erba verde”. Io ero legatissima a mia nonna, per me mia nonna è stata quasi una seconda mamma. Quindi il nome Cloe ha proprio una valenza affettiva.

Perché hai proprio scelto questo titolo?
I titoli si cercano sempre alla fine di una storia. Solo quando hai finito capisci i temi più importanti. Allora quando ho finito di scrivere ho fatto una lista e l’ho mandata per mail alla casa editrice. C’erano tante proposte, per esempio: “La bugia bianca”, o “La fenomenale bugia che salvò il mondo”, o “La prodigiosa bugia che salvò il mondo”. Alla fine la casa editrice ha scelto: “La bugia che salvò il mondo”. Perché il mondo? Perché salvò il mondo di quei ragazzini, e non solo il loro, ma anche la vita di tantissime altre persone. Per ognuno di noi la propria vita è il mondo e quando noi non ci siamo più, scompare il mondo.

Ti è mai capitato che mentre scrivevi non ti piaceva ciò che producevi?
Sì mi capita sempre. Mentre scrivo, all’inizio magari mi sembra che possa andare bene, dopo un giorno lo rileggo e dico: “Ma che schifo!”. E poi mi capita una cosa strana: quando il libro viene pubblicato io sono contenta di vederlo, ma non lo apro mai, perché se lo apro trovo sempre qualcosa che non mi piace.

Hai mai avuto il blocco dello scrittore?
Molti blocchi dello scrittore. Una volta mi sono fermata e per tre giorni non ho scritto niente: mi sembrava di essere di fronte a una montagna e non sapere quale strada prendere per scalarla. Allora sono andata a fare shopping, sono andata in giro, sono uscita con le amiche, ho lavorato in casa editrice correggendo i libri degli altri, e così mi dimenticavo della mia storia. E poi mi è venuta un’idea su come continuare mentre ero in treno. Occorre fermarsi a volte, non fare niente e poi magari si accende la lampadina.

Ti è mai capitato di avere troppe idee?
È una cosa che mi capita spesso. Mi capita di avere tantissime idee per le storie. Non ho problemi a trovare una storia, ma quando le idee sono tante bisogna avere la capacità di scegliere. Quando hai tante idee, puoi fare una scaletta. Le metti giù, anche a caso, poi le riordini.

Ti sei affezionata ai personaggi?
Sì, decisamente! Per questo ho voluto che Cloe e Amos poi si incontrassero di nuovo da grandi. Mi sono affezionata tanto anche alla figura del medico, che ho trattato un po’ alla lontana perché era osservato dal punto di vista dei ragazzi.



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